Unisce storia, arte e una profonda meditazione sull’identità dell’essere umano, la mostra Specchio – Il riflesso dell’io, allestita fino al 22 settembre negli ambienti del Museum Rietberg, a Zurigo. Oggetto plurimillenario, lo specchio è indagato nei suoi molteplici aspetti, combinando approfondimenti sulle tecniche di realizzazione, dialoghi tra aree geografiche ed epoche diverse e manufatti artistici antichi e attuali.
La rassegna zurighese riunisce ben 220 opere provenienti da 95 musei internazionali, offrendo una suggestiva passeggiata fra esemplari di superfici specchianti che risalgono a 4mila anni fa e altre che provengono dall’antica Grecia, dall’Etruria, dalla Cina, dall’India, dal Giappone.
Alla dettagliata sezione che ripercorre la storia dello specchio se ne affiancano altre, che ne prendono in esame le peculiarità. Il riferimento a Narciso è d’obbligo e apre la strada a una riflessione sul riconoscimento di sé e sulla questione dell’autoritratto, ben chiarita dal corpus di scatti che anima una delle sale. Veicolo di saggezza e vanità, lo specchio esplicita la sua anima duplice anche nella dimensione rituale, in cui assume la valenza di simbolo magico di protezione e difesa, nonché elemento ricorrente nelle diverse dottrine religiose.
È il caso del quadro (del 1870) di Jules Lefebvre dal titolo La Vérité: vi si vede una donna nuda, bellissima, che innalza uno specchio quasi contenesse la luce del sole.
Lo specchio, inoltre, diventa accesso verso mondi altri e misteriosi, come suggerito da Carroll nel suo Through The Looking Glass, e “oggetto di bellezza”, collegato perlopiù all’universo femminile. Proprio in questa veste, appare in un dipinto recentemente entrato a far parte della nostra collezione.
Si tratta de Il camerino dell’attrice, dipinto che può essere ricondotto al linguaggio stilistico e al ductus del pittore fiammingo Jan Baptist Lodewyck Maes, sia per l’originalità del taglio compositivo della scena raffigurata sia per l’utilizzo teatrale del chiaroscuro che plasma le figure ed enfatizza i particolari, come i fiori custoditi nella campana di vetro, il bouquet posizionato sulla sinistra, la maschera adagiata sul bordo del tavolino, capolavoro di virtuosismo prospettico.
Protagonista del dipinto è presumibilmente una giovane attrice, colta nell’atto di leggere una lettera giunta da un ammiratore: ne intravediamo il testo, che reca la data, la località (Roma) e l’affettuosa intestazione (Cara).
L’ovale della giovane donna, riflesso nello specchio e illuminato nella penombra del camerino, viene incorniciato da un bagliore di luce delicatissima e soffusa che conferisce un’atmosfera magica e sognante all’intera composizione.
Figlio d’arte – suo padre fu il valente pittore Pieter Franciscus Maes – Jan Baptist Lodewyck Maes fu artista duttile e versatile, cimentandosi con profitto nella realizzazione di grandi narrazioni storiche, composizioni religiose, scene di genere e ritratti. Formatosi presso l’Accademia di Gand, divenne membro della Royal Society for Fine Arts della cittadina belga; in seguito si trasferì a Anversa, dove rimase fino a quando non si aggiudicò una borsa di studio per continuare i suoi studi a Parigi.
Dopo aver vinto il “Prix de Rome” a Anversa nel 1821, si stabilì in Italia nel 1822: visita Parma, Firenze e Bologna; ma è a Roma che trova la sua terra d’elezione. Nella capitale, infatti, non solo si afferma come pittore ma trova anche l’amore: nel 1827 si sposa infatti con la figlia, Anne Marie, di un celebre incisore, Bartolomeo Canini, dal quale prese il secondo cognome: dall’unione coniugale con Anne Marie nascerà un figlio, Giacomo Maes, anch’egli futuro pittore. A Roma, inoltre, frequenta la chiesa di San Giuliano dei Fiamminghi, istituzione cattolica per la quale supervisiona diverse committenze. Propria in questa chiesa ancora oggi il suo sepolcro è segnalato da una lapide. Sue opere si trovano nei Musei di Amsterdam, Amburgo, Konigsberg, Monaco e Weimar.
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